ECCO UN BELL'ARTICOLONE PER IL SABATO MATTINA,SPERANDO SEMPRE DI FAR BRECCIA NELLO SPIRITO...buon weekend!
“L’Arpège”, ristorante del celebre cuoco Alain Passard, si trova all’angolo della rue de Varenne, a Parigi, a due passi dall’Ambasciata italiana. I decori dorati e le luci soffuse sorprendono per la loro discrezione. Nessuna fioritura ornamentale né eccentricità moderna per distrarre il commensale: l’originalità è tutta nel piatto. Le tavolate parlano tra loro e la disposizione delle persone a mezza luna crea un ambiente isolato dalla voragine della capitale francese. In un angolo mangiano con appetito volti noti della televisione francese. Come centrotavola spiccano enormi verdure che riassumono così la filosofia del luogo. «Lavoro perché il giardino di Francia ridiventi il più bell’orto del mondo», ha dichiarato Passard, che ha deciso di eliminare la carne da tutti i suoi menu.
È a quel punto che si aprono le porte della cucina e appare Alain Passard, tra una folata di aromi e idiomi provenienti da tutti gli angoli della terra.
Denominazione di origine bretone per il suo 3 stelle Michelin
Con occhi golosi mi racconta che da piccolo il suo piatto preferito era la fricassé de coquillages (fricassea di molluschi) con salsa di burro, che gli preparava la nonna. «Ogni giorno a “L’Arpège” cerco di ricreare l’ambiente che ho vissuto durante la mia infanzia». La nonna, sua vera maestra, gli diceva spesso che «ascoltare e osservare sono attività primordiali per identificare e aiutare l’alimento a rivelare i suoi migliori talenti, approfittando così delle sue migliori caratteristiche». Le lezioni di Louise Passard hanno messo le mani in pasta allo stile tradizionale del cuoco francese: «Con le cucine a legna di una volta il fuoco era l’elemento principale. Sfortunatamente oggi questa relazione così intima tra il cuoco e il prodotto si è persa con l’uso delle cucine elettriche o a gas, con numeri e termostati».
Ingredienti tipici della Bretagna sono il segreto della cucina di Passard: pesce, verdure e burro. La Bretagna è a suo avviso una delle regioni più gastronomiche di Francia. «Manca solo il vino!» sospira con un sorriso burlone.
A 14 anni Passard annuncia ai genitori di voler essere cuoco ed entra come apprendista da Michel Kéréver, chef bretone, per quattro anni. Dopo la gavetta compie un viaggio gastronomico per Parigi, Reims e Bruxelles, dove lavora tra i fornelli di diversi cuochi e apprende l’arte del savoir faire di diverse scuole di cucina. «La mia cucina è francese e i prodotti che utilizzo provengono dalla nostra terra e dal nostro mare». A 30 anni, nel 1986, la svolta: apre il ristorante “L’Arpège” , che poco a poco acquista notorietà fino ad ottenere il massimo riconoscimento culinario: quello delle 3 stelle Michelin.
Da carnivoro a cuoco vegetariano
«Poco a poco il mio rapporto con la carne è diventato difficile. Per un anno sono rimasto lontano dai fornelli e andavo al ristorante solo per mangiare». L’animale morto, il sangue e la pelle degli animali cessano di essere una fonte di ispirazione. In quel momento Passard non sapeva ancora che la crisi che stava passando aveva a che vedere con «la fine della cucina animale e la nascita della cucina vegetale». E così nella cucina di Passard le verdure cessano di essere elementi di decorazione per diventare protagoniste del pranzo. Nel menu si può trovare ancora pesce o uccellagione, ma non carne rossa.
Fu la rinascita di Alain cuoco, per la seconda volta. «Un’epoca in cui avviene un autentico cambiamento dei poteri: dalla carne alla verdura! Che gioia!». Passard acquisisce una proprietà con un antico orto inattivo da circa 30 anni e lo fa rinascere. Nel suo orto non si utilizzano pesticidi. La terra si lavora con un cavallo, perché «un trattore altererebbe la vita animale della terra e lascerebbe profonde fenditure al suo passaggio».
Grazie ad una selezione rigorosa delle verdure e all’uso delle migliori sementi, l’orto è già autonomo. Alain Passard si concentra nello sviluppo e nella forma delle verdure come fonte d’ispirazione. A partire da lì si impegna a controllare la composizione genetica per creare i migliori pomodori, le migliori cipolle, in costante dialogo con orticoltori e giardinieri per perfezionare le sue materie prime.
«Le verdure e gli ortaggi con i loro colori, disegni, forme, profumi ed aromi vari sono molto più creativi dei tessuti animali». Degustare una specialità per Passard diventa un’esperienza che coinvolge tutti i sensi. «Non si parla mai di questo. Ma sono praticamente sicuro che il colore sia un fattore essenziale nella combinazione del gusto dei diversi alimenti», sussurra Passard come a svelarci un segreto intimo. Per esempio, «il cuore di carciofo è giallo. Per questo cerco di non mettere niente che sporchi il giallo, come un cetriolo bianco, una carota bianca o una rapa gialla, e nella salsa, parmigiano o mostarda di Orléans». Mentre ne parla gli brillano gli occhi. E ascoltandolo mi viene l’acquolina in bocca. La sua grande scoperta «è stata una cipolla flambé con alcol di pera in una fonduta di pralinata di nocciole: fantastique!».
Vegetariani e giapponesi
Passard ritiene che i giapponesi abbiano un gusto curioso. «Hanno una cucina molto raffinata ma anche molto chiusa. Un sushi sarà sempre un sushi». E vuole innovarla: «Perché non un francese per renderla più creativa e contemporanea?». Oltre ai giapponesi, americani, brasiliani, libanesi e, ovviamente, europei, sono quelli che apprezzano di più la cucina a base di verdure e ortaggi. Ma «nessuno mi ha mai chiesto di andare in un Paese dell’Europa dell’Est».
Passard è sicuro che non esista una cucina europea omogenea. «La cucina è un elemento familiare, quotidiano, e le cucine regionali o dei diversi Paesi devono mantenere la loro identità. In Europa ci sono molti ottimi chef capaci di innovare, come l’inglese Heston Blumenthal, il catalano Ferran Adrià, i baschi Martin Berrasategui e Juan Mari Arzak, e altri ancora… ma «parlo di chef. La cucina deve continuare ad essere sempre la stessa, mantenendo le sue caratteristiche tipiche».
Per la traduzione dal portoghese si ringraziano Judith Payró e Robert Branchat
di leonor guimarães Traduzione: Anna Castellari
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